LA MAFIA INNOMINABILE

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Domenico Seccia

La mafia innominabiLe

edizioni la meridiana


La faida e

La mafia

Ero entrato a far parte della DDA di Bari. Nel marzo del 2003 Mimmo Marzano, procuratore a Bari e capo della DDA, mi assegna il territorio di Foggia e del Gargano. Mi metto al lavoro. Decine e decine di omicidi insoluti; eppure facili da leggere; l’uno in risposta all’altro; una scia di sangue impressionante. Si parlava di lotta tra pastori, tra allevatori, tra soggetti criminali. Mi impressionava il fatto che la parola mafia, quasi magica, quella che evoca scenari ben diversi (organizzazioni dedite al controllo del territorio, che aspirano alla leadership del territorio e che ammazzano per questo) non veniva mai pronunciata. Bastava ascoltare i resoconti giornalistici e televisivi dell’epoca: non c’era mafia sul Gargano, ma solo la faida, parola che evocava meri piccoli contrasti familistici, di gruppi che si ammazzavano per un terreno, per un gregge. Quanto eravamo distanti dalla mafia! La faida è la possibilità, per un privato, di ottenere soddisfazione per la lesione di un proprio diritto ricorrendo all’uso della forza. Adoperando quel termine, si minimizzava il fenomeno, un isolamento linguistico che realizzava un isolamento del fatto. La storia, così, era annullata. Gli ammazzamenti erano “storie tra allevatori”. Appunto, fatti di faida. Tutto ciò comportava l’impossibilità di leggere la globalità del fenomeno, di comprendere la penetrazione di esso nel sociale e l’eventuale penetrazione nel sistema vitale e pulsante della società garganica. 7


Impediva la comprensione e la disamina dell’organizzazione criminale e della risposta collettiva che occorreva fornire. Eppure i fatti erano gravissimi, caratterizzati da una lotta senza frontiere, da omicidi in trasferta, da sparizioni di corpi, da lupare bianche, da ammazzamenti in pieno centro cittadino, da agguati in vero stile gangsteristico, da ricchezze sviluppatesi molto, troppo velocemente. Per un fazzoletto di terra, c’era qualcuno pronto anche ad ammazzare. Proprio in Puglia, in quel Gargano ribattezzato “promontorio della paura”. Una sanguinosa scia di decine e decine di efferati omicidi, di tentati delitti e di vari casi di lupara bianca. Storia antica, ma non troppo. Se il tuo mestiere è quello di fare il magistrato, occuparsi di mafia è come cercare di respirare sott’acqua. Non puoi farlo perché non hai le branchie, ma devi trovare il modo per emergere, per affrontarla, per non morire soffocato. Ero lusingato da quella proposta, intravedevo difficoltà, soprattutto nell’affrontare situazioni dove all’accezione comune di mafia non era seguito alcun riconoscimento giudiziario di essa. Da quel momento mi immersi nell’irreale di una realtà ignota. Dubbi, soddisfazioni, rabbia, malcontento, come mai mi era accaduto sino ad allora. Eppure stava accadendo. Partiva un’avventura che mi dava le vertigini, che incoraggiava la reazione, che incitava ad un’organizzazione diversa del lavoro. Contro la mafia. La richiesta era quella di dare una risposta ai tanti perché: alle vittime della mattanza; alle persone offese dalla mafia; ai parenti che non avevano un corpo da onorare o a chi avesse perso tutti gli affetti. Per il Gargano. Il sogno era quello di rendere giustizia ad un territorio, di 8


dare risposte a chi aveva voglia di ricostruire la legalità in quella terra, a chi non è corrotto, a chi non vuole subire ricatti ed estorsioni. L’ambizione era quella di raccontare giudiziariamente ciò che era successo, di narrare la vita di una terra lesa, ferita, che però aveva voglia di rialzarsi e di sperare. La speranza. Era quella di rompere il muro di omertà e di intimidazione, di alleviare una sofferenza morale che da troppi anni condizionava la vita, la dignità e la passione delle genti del Gargano, martoriate, ma mai dome. La giustizia come un antidoto. Non come qualcosa di opposto, di diverso, di altro. Qualcosa che aiutasse a capire la sintassi e la grammatica di un mondo violento che ti priva di tutto, delle idee, della libertà e di un futuro migliore. Era necessario vincere la credenza che la mafia garganica fosse una magia, popolata dal potente di turno che impone il suo comando, la sua forza e la sua violenza. Si trattava di affermare la legalità in una terra che non la conosceva, ove i valori condivisi sono deboli e quelli forti mancano del tutto. Dove vige una triade diabolica: la presenza di famiglie mafiose che occupano e dominano quel territorio; la centralità della mafia, rappresentata dai loro capi violenti, che indirizza l’economia del territorio imponendo il pizzo e il vassallaggio, nonché l’usurpazione di intere zone del territorio; la mancata opposizione sociale. Queste tre entità rendevano inutile ogni coscienza della sottomissione mafiosa e vana ogni forma di reazione e ribellione. E la sottomissione era evidente nei silenzi di quelle zone, nella diffusa e pervasiva intimidazione omertosa che caratterizzava ogni delitto, nella chiusura che quei fatti generavano, quasi che chi rappresentava la Legge fosse l’intruso, l’ospite non gradito, che quei fatti erano sopportati, tollerati. Erano cosa loro. Si credeva al potente mafioso vincente, ai Li Bergolis e ai loro affiliati, che da generazioni imponevano la loro legge, per 9


opportunismo, per convenienza, per paura. Vi era una sorta di servitù volontaria, la cura di sottomettersi a qualcuno, la percezione di una realtà distorta in cui lo Stato è l’alieno, il diverso. La mafia garganica è l’alterazione strutturale della verità, la costruzione di un mondo falso, fittizio, un trionfo dell’irreale, di una società arcaica che vive propri rapporti e si dà proprie norme. L’irreale divenuto terribilmente reale. La mafia garganica è un contrasto violento della realtà. Con esso occorreva confrontarsi. Cosa poteva mai cambiare in una realtà dove non si avverte più nulla di sbagliato o di anomalo? Occorreva interrogarsi sulla coltre di silenzio che ha velato per anni il modellarsi del fenomeno. Occorreva alimentare la speranza di una religione civile che avesse consapevolezza dell’esistenza della mafia, che non abdicasse alla reazione contro la mafia, che ritrovasse il gusto e il senso del rafforzamento delle regole e della dignità della persona.

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i

gesti deLLa mafia

Al coraggio di Rosa Lidia Di Fiore si contrapposero le storie di omertà, di intimidazione, di paura che hanno accompagnato anni e anni di indagine. C’è un Gargano spaventato che ha paura della mafia che pur nella memoria della sofferenza e del dolore non reagisce. A San Giovanni Rotondo, l’8 novembre 2002 fu ucciso Michele Placentino. In via Padre Pio, un commando composto da quattro uomini uccide Michele Placentino che si trovava all’interno di un’autovettura parcheggiata sul marciapiede. I killer sparano dall’autovettura Michele Placentino e poi ritornano per finirlo, colpendolo con barbara ferocia al capo ed al torace nel tragico stile della mafia garganica, utilizzando fucili micidiali con micidiale munizionamento spezzato. L’omicidio avviene alle ore 17.30-17.40, nelle vicinanze immediate della zona delle bancarelle di vendita di articoli religiosi. Un attacco in piena regola, fatto in pieno giorno, in un luogo centrale e popolato di persone, di fedeli, di strade dove si vendono con le bancarelle segni religiosi, violando la sacralità di quel territorio, popolato da immagini del Santo. Con i killer che fanno scorrere il sangue nei luoghi dei miracoli. Il delitto secondo gli investigatori costituiva la risposta al tentato omicidio di Giovanni Prencipe, ritenuto dagli investigatori vicino al clan Li Bergolis, avvenuto il 28 ottobre 2002 a San Giovanni Rotondo. Con modalità omologhe, tristemente sempre uguali. L’attentato andava punito con la vita. 131


E il Placentino che, secondo il tribunale della mafia, aveva attentato alla vita del Prencipe, doveva morire. Quello di Michele Placentino è un delitto di mafia, voluto per una motivazione ulteriore, comune, eppure superiore, profonda, dalla mafia vincente del Gargano, padrona del territorio. Voluto da quella mafia per l’ospitalità data in passato da Michele Placentino al latitante Michele Alfieri che aveva, a sua volta, ucciso il figlio del Ciccillo Li Bergolis. Che non poteva dimenticare. Ne parlarono due donne del Gargano, la moglie di Placentino, e la figlia, Concetta Placentino. Parole poi ritrattate, secondo il canone garganico. Un omicidio voluto dalla mafia per il gesto visivo e mafioso, narrato e poi ritrattato dalla vedova Placentino, che Li Bergolis fece a Placentino Michele, battendogli la mano sulla spalla. “Non preoccuparti…” gli disse quando il Placentino gli si sottomise temendo di essere assassinato. Concetta Placentino dirà (e poi ritratterà) che Ciccillo Li Bergolis aveva detto a suo fratello Pietro, figlio dell’ucciso, da lui addirittura battezzato, che mentre al padre gli aveva battuto la mano sulla spalla (presagio di morte), a lui, invece, lo avrebbe abbracciato (presagio di salvezza). Sono i segni della mafia. Il patriarca dispensa vita e morte. Salva il figlio perché ormai appagato dalla morte del padre. La vendetta mafiosa si è consumata. Si può celebrare, anche, il rituale salvifico garganico. Sono i verdetti della mafia. Che decide chi deve vivere e chi deve morire. E che ricorre al gesto dell’imposizione, del perdono, della richiesta di sottomissione, della necessaria ritrattazione di chi, sbagliando, ha inteso narrare le gesta mafiose agli sbirri ed al magistrato. Al di là di ogni omertà; al di là di ogni regola; al di là di ogni norma garganica. Quella fu una delle pagine più amare dell’attività investigativa svolta. 132


Le due donne, la vedova Placentino e la figlia, negarono di aver detto quelle frasi, accusando gli investigatori, nonostante le verbalizzazioni registrate e nonostante la ricchezza dei particolari riferiti che solo chi aveva assistito agli eventi poteva narrare. La reticenza toccata con mano. Con diversi episodi. Di omertà. Di silenzio. Di intimidazione. Di favore alla mafia. La verità come silenzio o come menzogna. Le due donne rifiutarono persino di confermare quanto riferito in fase istruttoria. Placentino Concetta, sentita all’udienza del 30.10.2007, ha negato sul conto del Prencipe Giovanni fatti affermati in sede di indagini e trascritti con registrazione; quando veniva fatto presente che era stata registrata, a fronte dell’iniziale negazione di tali dichiarazioni ha successivamente giustificato la divergenza accusando apertamente i Carabinieri che l’hanno sentita di averla obbligata a dire quelle cose. Si tratta di audizione fatta anche davanti ad un magistrato ed in questo emerge apertamente la volontà della teste di negare quanto detto all’epoca. Di Iorio Anna Maria, sentita all’udienza del 30.10.2007, come la Placentino, ha negato fatti detti in sede di indagini arrivando ad accusare i Carabinieri per quello che era stato pronunciato e registrato dalla sua voce.

Di seguito, in quella sentenza, la testimonianza dell’omertà. Così Gargallo Lucia per la sua deposizione in ordine alla trattazione relativa all’omicidio Fiorentino; si vedano ancora i testi Vastano Teresa, Gelsomino Maurizio, Miucci e Mangini Pasquale in relazione all’omicidio di Mangini Matteo; è interessante notare come il Mangini Pasquale ha ritrattato la propria posizione, pur dimostrando di conoscere bene le armi e di non aver paura visto che si attivava ad inseguire quelli che riteneva essere gli sparatori dopo 133


che gli stessi si allontanavano armati dal luogo dell’omicidio e pur facendo una indagine personale, anche collaborando con i carabinieri; Tritto Antonio, per cui si rinvia alla trattazione dell’omicidio Santoro; Saracino Pasquale e Silvestri Michele per cui si rinvia alla trattazione dell’omicidio di Silvestri Biagio; D’Abbraccio Michele, per la cui trattazione si rinvia al duplice omicidio Fania; Siciliano Antonio e Siciliano Michele, per la cui disamina si rinvia alla trattazione relativa all’omicidio Siciliano. (Corte di Assise di Foggia del 7 marzo 2007)

L’occasione per rompere il muro di omertà era rinviata. Un’altra volta. Era una scena desolante, dalla quale emergeva che la mafia garganica era più forte di prima.

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vieste

I clan sono spietati quando si tratta di stabilire il controllo dei traffici illeciti o di imporre la propria volontà criminale terrorizzando la comunità in cui operano e hanno una disciplina interna paragonabile alle ndrine calabresi, impermeabile ad ogni intrusione, ad ogni attività investigativa. Le capacità organizzative delle famiglie criminali e il controllo capillare sul territorio che riescono ad assicurare sono state a lungo sottovalutate. Un fenomeno sotterraneo; un’intelligenza disaffezionata e infastidita dalla situazione, l’accettazione liturgica di un male atavico, endemico, non razionale, marginale. Al di là delle morti, al di là della faida. Al di là del sangue sulle strade. La barbarie non ha confini. Il 17 novembre 2010 scompaiono i fratelli Piscopo, di Vieste. Sono due fratelli imprenditori turistici di cui non si hanno notizie dal momento in cui si sono recati nel loro fondo per raccogliere le olive. “Speriamo che non sia successo niente, che li trovino vivi, commentano gli investigatori”, nei giorni frenetici di una ricerca che ha fatto piombare Vieste, la città, nel frullatore dell’ansia. Vieste, il suo lido, la città del monolite di Pizzomunno, la sua spiaggia da cartolina, è la bellezza del Gargano. Una bellezza scossa da un evento più grande della sua realtà, una scomparsa incomprensibile, fuori dall’ordinarietà e dai canoni della quotidianità. Eppure questo è il Gargano. Paradiso e inferno; sole e tempesta; amore e odio. 147


Con i presagi di possibili segni di dolore, con il pensiero rivolto ad un crimine ineffabile, aduso alla criminalità organizzata, la lupara bianca. La lupara bianca per Vieste è la certificazione dell’avvenuto mutamento sociale e territoriale, il pericolo che essa non sfugge alle grinfie della mafia garganica, al di qua del sentiero che delimita il male dal bene. Eppure le avvisaglie vi erano state: decine e decine di incendi ad esercizi pubblici; il racket del cavallo di ritorno, tecnica criminale per la quale si ruba il bene per chiederne il pizzo; il passaggio di beni e la loro vendita a chi scalava la vetta del potere della mafia territoriale. Vieste è anche la città dove si è costituita, in terra garganica, la prima associazione antiracket della provincia, e dove furono raccolte in un solo anno, il 2009, ben cinquantacinque denunce di estorsioni e che in passato ha pure visto l’omicidio importante di chi segnava il passaggio di testimone dalla mafia arcaica garganica a quella giovane, moderna, spietata, avallata sempre dal vincente clan Li Bergolis. Una mafia talmente arrogante da arrivare a piazzare e a far esplodere una bomba sotto l’auto di un carabiniere parcheggiata in strada, pur colpita da tre importanti blitz antidroga, che non ne hanno, però, fiaccato la consistenza. Il 28 novembre 2010 i fratelli Piscopo sono rinvenuti carbonizzati in una macchina rubata. I killer li hanno uccisi con una pistola e un fucile. Un’esecuzione mafiosa. Abietta, malvagia, perfida. Un messaggio di morte, di timore, di intimidazione, di prepotenza mafiosa. E di un potere mafioso. Sono stati inseguiti e uccisi e poi bruciati, facendo scempio delle carni e del corpo in una vocazione mafiosa garganica che macella senza umanità. È il buio del Gargano: la morte come colonna sonora, la logica della sopraffazione come logica irrazionale di questa terra. 148


È il marchio doc di una barbarie senza fine che non fa più indignare. È la croce di una terra che alligna nel dolore, che vive la morte come una tragedia prossima a definirsi, che vive questo momento con una atavica rassegnazione. Lo Stato prende coscienza: li abbiamo sottovalutati, fermiamoli, li prenderemo, con il sospetto che, più che trovarla questa verità, ci si alleni a definirla. “La mafia del Gargano è certamente la più efferata e pericolosa in Puglia, ma anche tra le più efferate in Italia”; “nell’area del Gargano la criminalità tende ad assumere forme più oculate di controllo del territorio e caratteristiche di vera e propria mafia” è l’analisi che trapela dai vertici organizzati in quei giorni dalle Forze di polizia. Non basta. A pochi chilometri da Vieste, il 7 dicembre 2008, a Cagnano Varano, un paese non nuovo all’atavica faida dei Tarantino contro i Ciavarrella, vengono uccisi a fucilate, mentre raccolgono legna in un bosco, Pietro e Sante Zimotti, allevatori, padre e figlio di quarantasette e ventisei anni. I due allevatori hanno visto i killer, hanno provato a scappare: il padre è stato ucciso per primo con una fucilata alla schiena, con i sicari che hanno infierito sul figlio, raggiunto da tre colpi di lupara, uno dei quali devastante al volto. Gli autori dell’omicidio, secondo le indagini, hanno un nome e cognome, sono padre e figlio, allevatori come i primi che reagiscono ad un sopruso, ovvero ai furti di veicoli agricoli con richiesta di pizzo che avevano subito dagli Zimotti e da un loro parente. La causa che ha fatto uccidere è nella faida, nella mentalità da faida che caratterizza queste terre e chi le abita, condizionandole. Il privare la famiglia dei mezzi per vivere, per coltivare la terra e chiedere un riscatto che ne prostri le scarse possibilità economiche, è il crimine più abietto che possa esserci. Per comprenderlo bisogna entrare in questa mentalità, occorre capire i meccanismi che legano questi uomini ai loro 149


beni che servono per produrre e la produzione serve per vivere. Per chi indaga, l’attribuzione della responsabilità dei cavalli di ritorno agli Zimotti è il movente della faida: è sufficiente per far decidere ai killer di condannare a morte gli Zimotti. I killer, preannunciando l’azione, aspettano i confinanti, uccidono Zimotti padre e poi scatenano la vendetta nei confronti del figlio, ucciso come una bestia, con colpi mortali sparati da un fucile calibro 12, rivolto ad uccidere proprio le bestie, che ne dilaniano il corpo. Può esser semplice e potrebbe anche essere sufficiente dire che è solo una ferocia barbarica generata da arretratezza medievale, profonda ignoranza e assenza di Stato, ossia impossibilità di credere che con il diritto si possa ottenere una qualche forma di giustizia. Ma tutto questo sarebbe solo uno sguardo superficiale che certo potrebbe essere sufficiente se si volesse liquidare presto questa storia. Questa non è una strage dettata semplicemente dal raptus di paesani che vivono in terre del Sud dove ci sono più fucili che forchette. Non è così facile. Sono uccisioni della regola. Barbarie certo, ma che si fondono su meccanismi assolutamente disciplinati dalle regole eterne di queste terre. Sono dinamiche culturali, quella regola non è una regola di mafia, è una regola e basta. È qualcosa che anche se nasce come impulso, si alimenta di una prassi. La regola è “se tocchi la roba mia sei morto”. È una regola eterna, propria di queste terre dissanguate da faide ultradecennali, che tante guerre intestine ha prodotto; che tante morti ha prodotto e produce, dove la scia di sangue non si ferma. Perché la regola, quella regola, va osservata. Regole assunte come modi di vivere, come meccanismi per stare al mondo. È la faida di paese, dove in questi luoghi, cresci, ti formi con la sicurezza che il primo bene è la terra. 150


La roba, di verghiana memoria, è, a Cagnano Varano, come a San Nicandro, come a Monte Sant’Angelo, la radice di vita. La roba è la roba che passerà al tuo sangue e che si è ricevuto dal proprio sangue. Il confine della terra è il confine del tuo corpo. Rubare un mezzo agricolo è come toccare un figlio. Ancor peggio, richiedere il riscatto. È il doppio danno, la regola che è infranta due volte. Questa è la verità tragica del duplice omicidio Zimotti, impossibile a leggersi solo in base ad un feroce raptus di terra barbarica. Quei colpi di fucile, purtroppo, sono molto peggio di una barbarie. Sono frutto della legge di quel territorio. Le faide non affondano le loro radici negli affari criminali, ma nelle questioni di proprietà. Chi le eredita non sa nemmeno perché sono cominciate. È il catechismo del Gargano; la lezione che impari a scuola e che conservi gelosamente sino all’annientamento del prossimo. È materia antica: puoi morire per un pezzo di terra occupato, per un capo di bestiame rubato. La terra così raccoglie i suoi morti: si avvia la faida, ovvero non la vendetta in sé ma lo sterminio.

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indice

La faida e la mafia

7

L’origine della mafia garganica: la prima mattanza

11

La seconda mattanza

53

Orti Frenti

75

La guerra dei maggiorenti

83

La mafia di San Nicandro Garganico

101

Nasce la speranza: una donna coraggiosa

121

I gesti della mafia

131

I volti

135

Vieste

147

Dobbiamo farcela

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